Interview

ANDREA STAID

RIPENSARE L’ABITARE: ANTROPOLOGIA, DESIGN E UNA NUOVA RELAZIONE CON LA NATURA

L*OSMONAUTA #0005

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15 min read

Andrea Staid is an Italian anthropologist, one of the most original voices in the contemporary field. He teaches cultural anthropology at the NABA and IED in Turin. His research takes him to both marginalized neighborhoods of European cities and indigenous communities in Southeast Asia, always with a keen eye on forms of dwelling, migration, and cultural exchanges. As the author of numerous books, Staid investigates how people live and the relationships among individuals, cultures, and spaces.

Interview :

ANDREA STAID

Anthropologist

Prima di entrare nel cuore del tuo pensiero, ci piacerebbe sapere come è nata la tua passione per l'antropologia culturale. Ricordi se c'è stato un momento o un’esperienza particolare che ti ha fatto decidere di dedicarti a questo campo?

Sì, in realtà c’è un aneddoto divertente: mi sono laureato prima in storia contemporanea,  forse avrei potuto pensare di fare lo storico, ma quando ho iniziato a fare ricerca d'archivio per scrivere la mia tesi, che poi è diventata un libro, mi sono interessato alle cosiddette "carte fragili", cioè verbali di polizia, lettere e corrispondenze dei primi del '900 nel mio caso.

In quel momento mi sono reso conto che avevo una passione maggiore per la storia orale, il racconto delle persone. Così ho capito che la disciplina che più mi interessava era l’etnografia, l’osservazione delle persone vive più che di quelle morte. È iniziato quindi un mio interesse da lettore di antropologia. Poi ho fatto un paio d’anni di ritiro dal mondo universitario, girando un po’ l’Europa durante i quali ho letto praticamente solo libri di antropologia, abbandonando la storia contemporanea.

Così ho capito che questa era la mia vera passione. Incontrai un libro, La Società contro lo Stato di Pierre Clastres, e decisi “Voglio fare l’antropologo”. Ho cercato corsi di laurea magistrali e borse di studio, e trovai quella a Genova, motivo per cui vivo qui sulle prime alture genovesi. Questa voglia di studiare antropologia non mi è mai passata. È una delle certezze della mia vita. Con gli anni l’ho affinata e ho ampliato i miei interessi: oggi l’antropologia non riguarda solo popolazioni lontane o erroneamente considerate “esotiche” ma riguarda e studia tutte le culture umane nelle sue varie manifestazioni. L’approccio di ricerca etnografico studia il design, l’arte, l’ architettura, che sono proprio i temi di cui mi sono occupato nel mio dottorato, che ho fatto in arte e antropologia.

E perché hai scelto proprio questo percorso? C’è stato qualcosa che ti ha indirizzato verso il design, l’architettura e, più in generale, verso l’idea di riorganizzare la società oggi, con quella visione particolare che hai del rapporto con la natura?

Dare una risposta precisa sarebbe lungo, ma provo a sintetizzare. Il mio primo libro di antropologia l’ho pubblicato nel 2011. Già durante la specializzazione cominciavo a lavorare su temi come città, schiavitù e marginalità urbana. Ora, uno potrebbe chiedersi cosa c’entra tutto questo con design e architettura. In realtà, c’entra moltissimo.

Per me, tutto ruota attorno alla mia visione di come le forme del mondo sostanziano l’esistenza delle persone, e di come non solo abitiamo i luoghi, ma siamo abitati da ciò che ci circonda.

Quindi design e architettura sono legati a questioni etiche, ecologiche, politiche e sociali. Oltre che identitarie. 

Il mio percorso può sembrare atipico perché sono passato dallo studio dei processi migratori e della marginalità a temi come l’architettura, l’abitare e il design. Per me è stato un cammino durato 15 anni, che mi ha portato a capire l’importanza di dare forme al mondo, non solo attraverso dei processi formali ma anche informali.

La questione della natura è centrale proprio perché noi siamo natura.

Come studiosi, è naturale occuparsi di questo. Con la natura, facendone parte, dobbiamo imparare a relazionarci, e non possiamo pensare di dare forme al mondo, o produrre design, arte e architettura, senza considerare la relazione con l’ambiente. Anzi, in molte culture native non si fanno distinzioni rigide tra design, arte e architettura: sono processi creativi che danno forma a ciò che ci circonda.

Inoltre, per capire l’abitare marginale, durante la mia ricerca, non mi sono limitato alle città italiane, ma ho frequentato per anni il sud-est asiatico, osservando le comunità native e le loro forme abitative nelle montagne di Vietnam, Laos, Thailandia e Myanmar.

Parlando con queste persone e osservando il loro modo di costruire e di produrre design vernacolare, ho sentito la necessità di connettere tutte queste esperienze. Questo lavoro mi ha portato a concludere una trilogia di libri che parte da La casa vivente, si fonda teoricamente su Essere Natura e che ora ho chiuso definitivamente con l’ultimo libro Dare forme al mondo.

Per me è importante capire quando si è creata la frattura tra produzione e relazione con l’ambiente, quando si è passati da una relazione armoniosa ad un approccio antropocentrico che spesso porta alla distruzione dell’ecosistema. Per questo mi sono occupato di queste tematiche nel modo più ampio possibile.

Prima dicevi di aver chiuso questo capitolo, che orizzonte vedi davanti a te?

Penso di aver chiuso perché non voglio focalizzarmi su un unico argomento di ricerca, dopo tanti anni è giunto il momento di studiare cose nuove, di intraprendere nuovi filoni di ricerca. Sono in un momento molto bello, da una parte raccolgo i frutti di 15 anni di scrittura e di ricerca, dall’altra sto iniziando un nuovo sentiero, non so dove mi porterà ma questo è il bello della ricerca sul campo e della riflessione antropologica. 

Potresti spiegare brevemente cosa racchiude il concetto di “casa vivente”. So che è una trilogia, e abbiamo accennato il tema della natura, ma mi interessava capire come concili queste due realtà. Si può leggere questo progetto come una tua sfida personale nel proporre uno sguardo alternativo sulla realtà che ci circonda e sul nostro modo di abitare il mondo?

Sì, intanto questa idea è nata facendo etnografia. Fare etnografia significa che noi antropologi non ci limitiamo a leggere libri o analizzare materiali d’archivio, ma dobbiamo incontrare le persone di cui parliamo. Io ho passato molti anni viaggiando e facendo ricerca in queste comunità.

Quando ero tra queste comunità, cercavo di stare “comodo nei panni degli altri” e sentirmi “scomodo nei miei”. Cioè, vivere come loro è diverso dal mio modo di vivere, e non per dire che loro hanno ragione e noi torto, bensì per metterci in relazione, prendere seriamente l’alterità.

Questo approccio non è stato solo un semplice scambio di domande e risposte, ma ha cambiato profondamente il mio io più intimo. Tornando da queste esperienze, dopo 5-6 anni, non riuscivo più a stare in città.

Quando ho iniziato a lavorare sul tema dell’abitare e del design vernacolare, vivevo in un appartamento al settimo piano, in una zona quasi periferica di Milano. Dopo essermi relazionato con queste comunità, mi sentivo incarcerato in quel palazzo, non riuscivo più a esprimermi. Avevo bisogno di cambiare il mio modo di abitare, dovevo e volevo rivoluzionare il mio quotidiano senza aspettare la pensione. Per fortuna i miei libri vendevano abbastanza da darmi la possibilità di vivere diversamente. Sono andato a vivere in una casa raggiungibile solo a piedi, in cima a un bosco vicino al mare. Ho ricostruito la mia vita basandomi sulle esigenze e i desideri nati proprio dal rapporto con persone diverse da me.

Ho iniziato a coltivare un orto, a fare la legna, a instaurare un rapporto intimo con il sistema Natura. Non ero più un soggetto posto al centro che semplicemente la rispettava, ma parte integrante di quel mondo, come è tuttora.

Detto questo, vivo una scissione quasi schizofrenica. Non sto sempre nelle montagne della Liguria; ci sono periodi in cui passo più tempo in treno che a casa tra lezioni, festival e conferenze.

Come faccio a gestire tutto? Non è semplice, e davvero ci sto male. Confesso che non mi sono ancora stancato della vita in mezzo alla natura, dove ho un rapporto lento con il tempo, distante dal ritmo frenetico della città.

Probabilmente mi piace così tanto il luogo dove ho scelto di vivere perché passo una parte del mio tempo in giro. Quindi forse sto bene lì perché, quando mi fermo due mesi per scrivere o riesco a passare 2-3 giorni a casa, recupero quella dimensione più lenta, mentre gli altri giorni vivo quella schizofrenia contemporanea della città.

Del resto, sono un prodotto della società attuale. Come tutte e tutti. Vivo cercando di cogliere il meglio dalla città soprattutto nel rapporto con la moltitudine e con i miei studenti.

Ad oggi sono 11 anni che insegno in università, un giorno a settimana, alla NABA, nuova Accademia di Belle Arti di Milano, e in altri campus dove tengo corsi di antropologia come lo IED di Torino. Quello che cerco di fare non è “rubare” le menti dei miei studenti, ma instaurare una relazione pedagogica: io insegno qualcosa a loro, e loro insegnano qualcosa a me. In questo modo continuo a crescere grazie alla relazione con gli abitanti umani della città.

Se avessi una bacchetta magica e potessi in qualche modo riorganizzare la città e la comunità, cosa proporresti come prima cosa? È una domanda che mi incuriosisce.

Se avessi la bacchetta magica… intanto, prima non ti ho spiegato che cos’è la “casa vivente”, quindi lo faccio adesso. La “casa vivente” è un modo di pensare l’abitare con attenzione alle relazioni tra umani e non umani: vegetali, minerali.

È immaginare la casa come uno spazio elastico, come qualcosa di organico, vivo, che dobbiamo conoscere, curare e osservare. Un abitare che non è soltanto materico.

Non è solo una questione materiale, non si tratta solo di costruire qualcosa di solido e funzionale; altrimenti l’architettura funzionalista avrebbe già risolto tutti i nostri problemi, ma non è così.

Quando costruiamo una casa o degli oggetti, questi devono entrare in relazione con gli utenti, cioè le persone che li useranno, ma anche con gli esseri non umani ma viventi, perché viviamo in un rapporto intimo con tutte le altre specie intorno a noi.

Quindi fatta questa premessa, se potessi cambiare qualcosa con la bacchetta magica, mi piacerebbe decostruire l’idea antropocentrica del mondo, in cui l’essere umano è il dominatore assoluto. Credo che sia questo il concetto alla base della distruzione dell’ecosistema in cui siamo immersi: antropocene, capitalocene, chiamatelo come volete. Questa crisi non arriverà, la stiamo già vivendo.

Abbiamo la fortuna di trovarci in un’area privilegiata, ma siamo già dentro un cambiamento che renderà la vita della nostra specie sempre più difficile.

So che sembra strano, ma con la bacchetta magica cercherei di cambiare la cosmologia antropocentrica con una visione multi naturalista.

Può sembrare una piccola cosa, ma in realtà è gigantesca, perché intervenendo su questo punto si potrebbero modificare conseguentemente molte relazioni gerarchiche, una sorta di reazione a catena, in grado di contrastare vari livelli di ingiustizia e sfruttamento.

Quindi partirei da qui. Ci sono molte cose che non vanno in questa società, ma credo che cambiando questa visione potremmo davvero trasformare tante relazioni tossiche.

Quindi agiresti soprattutto sulla parte culturale di partenza, che inevitabilmente influenzerebbe tutto il resto. Ma sul tema della progettazione, a proposito di cambiamento, riesci a entrare in relazione con progettisti che applicano questa visione nel loro lavoro?

Sì, questa è la cosa positiva della mia vita, la mia grande fortuna. Forse avrei dovuto dirlo prima, ma è vero che vivo una relazione un po’ schizofrenica con la vita: faccio l’orto e ho rapporti stretti con amici di varie età sulle montagne, ma allo stesso tempo per me è fondamentale mantenere una relazione con il mondo accademico e progettuale.

Con i miei studenti non mi limito alla teoria, ragiono molto con loro e, in seguito, è successo che nascesse una collaborazione a progetti dal carattere rigenerativo e risanatore. Questa collaborazione continua, soprattutto quando diventano professionisti e lavorano con altri docenti. Se siamo davanti a una tale mole di problemi, perché il design è così importante? Perché credo fermamente che i designer abbiano la capacità non solo di riparare molti dei danni che sono stati fatti, ma anche di mostrare nuove e migliori strade da percorrere.

Forse sono molto ottimista, anche se è vero che esistono ancora designer che ignorano queste tematiche e producono lavori dannosi per l’ambiente, per l’identità e la psiche delle persone. E’ vero che esistono anche progetti meravigliosi, molti già brevettati e in parte realizzati, che possono migliorare la nostra vita.

Probabilmente vi chiederete, come me, perché non si diffondano ancora maggiormente queste soluzioni? La risposta principale è economica.

La macchina capitalistica che produce plastica e polimeri, e che si basa quasi esclusivamente sul petrolio, non è molto interessata a lasciare spazio a progetti ecologici e sociali, pur essendo da tempo già esistenti ed operativi.

Ci sono comunque moltissimi studi e collettivi molto attivi, e questa parola “collettivo” è tornata prepotentemente nel design, per fortuna.

Vengo invitato spesso da gruppi di designer che si occupano di tematiche profonde e significative. Però molte persone, quando si parla di design, pensano solo ai brand famosi che commercializzano prodotti simili. Quando invece parlo di permacultura, social design o comunicazione e design, sento spesso dire: “Ma quello non è design”. Invece è design eccome, sono le parole le forme del nostro mondo.

La mia missione, pur non essendo un designer, è far capire quanto il mondo del design sia più complesso e ricco di quanto comunemente si pensi. Ci sono tantissime esperienze meravigliose, anche in Italia.

Nel mio libro porto esempi di studi che lavorano con materiali super performanti e a impatto zero, per esempio.

Assolutamente. Verissimo, tra l'altro, una delle prime interviste che abbiamo fatto per questo numero è stata con il fondatore di City Fabric, uno studio di architettura e urbanistica californiano che lavora proprio, nella prima fase, con le comunità locali per immaginare nuovi modi di ripensare gli spazi della città.
Lavorano soprattutto negli Stati Uniti, in California, che è un contesto interessante. Sono riusciti a realizzare progetti molto belli, partendo dall’aspetto del social design, semplicemente dicendo: “Ok, partiamo dal far parlare le persone, dal farle partecipare, e poi vediamo cosa si può progettare.”

Certo. Mi ricordo quando sono stato alla Biennale di Architettura del 2016, con l’evento Reporting from the Front. Già lì c’erano molti progetti interessanti dal punto di vista del social design, dell’architettura a impatto zero, persino architetture e design capaci di produrre energia senza consumarla, senza danneggiare la biosfera.

Stiamo parlando di quasi dieci anni fa, ma se andiamo a guardare più indietro, come ho provato a fare nel mio libro, negli anni ’40 e ’50 c’erano già persone che avevano capito che la strada intrapresa dalla rivoluzione industriale era pericolosa.

Un’altra cosa importante, quando parlo di design o lavoro con designer, è comprendere che noi siamo designer da sempre. Non è che siamo diventati designer solo con la produzione industriale o la fabbrica.

Il design industriale è fondamentale e può essere mantenuto, ma è essenziale ripensarlo in modo radicale. Come specie, siamo designer fin da quando siamo stati, e in certi luoghi siamo ancora, dei cacciatori-raccoglitori. Pensiamo, per esempio, anche ad un semplice oggetto come il tomahawk: è un prodotto di design. Esiste una relazione perfetta tra forma, funzionalità e comprensibilità, ciò che chiamiamo affordance - quella qualità della forma che comunica intuitivamente alla nostra mano come afferrarla e usarla. Mi entusiasmo molto per questi temi e credo che i designer debbano recuperare questa convinzione profonda: il loro lavoro non può e non deve limitarsi a produrre oggetti che generano profitto e che semplicemente occupano uno spazio già limitato nella nostra società.

Un libro che consiglio sempre, anche se datato e, è Design for a Real World di Victor Papanek. Un testo da leggere con occhi critici oggi, ma rimane un testo sorprendente, non è possibile pensare all’antropologia senza considerare l’incontro con molte altre discipline. Per esempio, persone come Tim Ingold, che vi consiglio di leggere se non l’avete ancora fatto, hanno fondato il loro lavoro sul rapporto con la natura, la produzione artigianale, il design e l’architettura. 

Questo aspetto è fondamentale per la comprensione di noi stessi come specie. A questo proposito, mi viene in mente una frase  che amo ripetere: “Se osserviamo le forme che creiamo, comprendiamo chi siamo.”

Se, ad esempio, devo studiare una civiltà scomparsa, che sia a livello archeologico o paleoantropologico, le forme che ha prodotto mi permettono di decifrare il tipo di relazioni sociali che essa intratteneva. È per questa ragione che le forme rivestono un'importanza così cruciale.

Durante i tuoi studi tra le varie civiltà avresti un esempio di popolazione che hai analizzato e a cui ti ispiri? Qualcosa che potremmo usare come guida per una vita più sostenibile?

In generale, direi che tutte le popolazioni originarie, nelle loro diverse forme e culture, sono importanti. 

Le comunità con cui ho fatto ricerca sono molto diverse fra loro: per esempio, la popolazione indigena delle Ande peruviane e le comunità montane del Vietnam non sono la stessa cosa. Tuttavia, ciò che ho imparato da tutte è l’importanza del rapporto con lo spazio, con la natura e con quello che costruiscono.

Queste popolazioni mi hanno insegnato la necessità di avere consapevolezza dei luoghi dove viviamo.

Consapevolezza significa conoscerli non superficialmente, ma in profondità. Non usare materiali che non sono adatti, ma scegliere materiali vernacolari, cioè naturali, locali e performanti.

Un aspetto fondamentale che ho portato con me è il valore del sapere fare e del conoscere, che non si trasmette attraverso metodi formali di insegnamento, ma tramite un apprendimento relazionale e comunitario, fatto di vita condivisa.

Se devo parlare di un esempio concreto, il materiale che più mi ha colpito e che più apprezzo è il bambù, o Arundo donax, la canna comune. Recentemente ho conosciuto  un collettivo italiano di artiste, architette e designer chiamato Arundo art che lavora proprio con queste materie.

Il bambù non è solo una pianta infestante dalla crescita rapida, ma una vera e propria risorsa strategica. La sua capacità di proliferare con un bassissimo impatto ambientale e le sue eccezionali proprietà meccaniche ed ecologiche lo rendono il protagonista ideale dell'architettura e del design sostenibile.

In casa, possiedo numerosi oggetti che testimoniano la straordinaria duttilità di questa risorsa, alcuni provenienti dalla Birmania: si va da capi di abbigliamento come magliette e sciarpe (grazie alle fibre tessili ricavate), a oggetti di uso comune come tazze e sedie, fino a strutture complesse e di grande scala come quelle costruite da Arundo art.

Il vero potenziale di questo super materiale organico si rivela nell'architettura vegetale, si possono costruire intere cupole e strutture portanti senza ricorrere a elementi metallici. L'abilità sta nell'utilizzo esclusivo di nodi di corda e nella profonda conoscenza delle tensioni e delle giunture del materiale. Questo approccio non solo minimizza l'impatto in fase di costruzione, ma offre anche una soluzione strutturale intrinsecamente elastica e resistente, persino ai sismi. La versatilità del bambù si estende ben oltre l'ambito strutturale, raggiungendo i prodotti di consumo quotidiano. Un esempio emblematico è la carta igienica. Mentre continuiamo a dipendere prevalentemente da carta ricavata dal disboscamento e dalla distruzione di foreste primarie, la carta di bambù (ottenuta da una risorsa che si rigenera in pochi anni) offre il medesimo comfort con un impatto ambientale radicalmente più basso.

Nonostante l'enorme potenziale e i benefici ecologici, uno dei problemi cruciali per il design e la produzione sostenibile è l'ingresso di questi prodotti nel mercato della grande distribuzione (GDO). Per attuare una vera transizione ecologica, i designer e gli imprenditori devono superare le barriere logistiche e di costo, rendendo le alternative a base di bambù non solo disponibili ma competitive rispetto ai prodotti derivati dalla silvicoltura tradizionale. Affinché il bambù diventi la norma, è necessaria una consapevolezza collettiva che spinga la domanda e sostenga l'innovazione lungo tutta la filiera produttiva.

Rispetto alle comunità originarie, credi che la loro capacità di preservare e tramandare la propria cultura sia al sicuro? Pensi che oggi questa capacità sia minacciata?

Purtroppo la risposta è negativa: la loro cultura è devastata, minacciata, distrutta e colonizzata. Le loro terre vengono sfruttate per estrarre risorse utili all’Occidente per fare affari, business che distrugge l’ecosistema. Da questo punto di vista non posso essere ottimista.

Ci sono però momenti di resistenza positiva, come in Brasile, dove le comunità indigene e altri gruppi sono riusciti a far cadere il governo di Bolsonaro, considerato tra i più criminali al mondo.

Vi consiglio di visitare il sito dell’Associazione Internazionale per i Diritti Indigeni Survival, dove si evidenzia come le popolazioni indigene non siano poche né “primitive”. Sono nostri contemporanei: usano smartphone, hanno pannelli solari sopra le palafitte, ma hanno un rapporto con la natura, con la cultura e con la vita molto diverso dal nostro.

Sono milioni di persone, ma quasi tutti i governi le attaccano e non le rispettano. Si rischia non l’estinzione, ma che vengano sopraffatte dalla guerra economica condotta contro di loro.

Mi piacerebbe capire come si posiziona la tua ideologia rispetto a un mondo che sta prendendo una direzione molto veloce, quella dell’intelligenza artificiale. Come ti rapporti a questa realtà, soprattutto nella tua vita schizofrenica? Cosa ne pensi e come ti approcci?

Cerco di non essere oscurantista, perché non è intelligente. Per ora non uso nemmeno le app con intelligenza artificiale, ma non escludo di farlo in futuro per capirla meglio. La studio leggendo molta letteratura critica sul tema, e devo ammettere che mi spaventa.

La cosa che più mi preoccupa è delegare alla macchina l’immaginazione e la formulazione delle idee, più che l’uso pratico da parte degli studenti. Per esempio, se uno chiede alla macchina: “Qual è il modo meno impattante per produrre una sedia?”, rischiamo di perdere la capacità di immaginare.

Immaginare una sedia significa fare etnografia, incontrare persone, relazionarsi con gli animali e la natura, e poi progettare. Delegare tutto alla macchina limita questo processo creativo.

Per quanto riguarda la medicina, non sono esperto, ma condivido la riflessione di Ivan Illich sulla “nemesi medica”: forse abbiamo allungato la vita, ma viviamo male. Forse è meglio capire come vivere bene e accettare la morte con dignità.

L’intelligenza artificiale mi fa paura soprattutto per la perdita di immaginazione e la delega che potrebbe generare.

Per farvi capire meglio il mio concetto con un esempio: prima, viaggiando con noi avevamo mappe cartacee, chiedevamo indicazioni, oggi usiamo Google Maps. Se l’app non funziona, perdiamo l’orientamento.

Se diventiamo dipendenti solo dalla macchina, perdiamo la capacità critica e immaginativa, diventando governabili da chi controlla la tecnologia. Sono critico, ma anche consapevole di ignorare molte cose che sto cercando di capire.

Hai dei progetti o ambizioni per il futuro? Come ti immagini il tuo percorso tra cinque anni? Ci sono progetti segreti o idee che vuoi anticiparci, magari senza spoilerare troppo?

Vi faccio anche degli spoiler, tanto questo numero quando esce? Scherzi a parte, attualmente sto lavorando ad un progetto molto bello: una cooperativa che si occupa di energie rinnovabili ha finanziato la riscrittura del mio libro Essere Natura per trasformarlo in un libro per bambini, una specie di graphic novel illustrata. Uscirà tra un annetto e sono molto felice di questa collaborazione.

Inoltre, da gennaio inizierò una collaborazione con l’Unione Buddista Italiana, in cui curerò mensilmente una rubrica sulla loro rivista Gate. Non sono buddista e a loro non interessa che io lo sia, mi danno spazio per riflettere su temi personali come la meditazione, il monachesimo, e una società che corre sempre più veloce, mentre alcune persone scelgono di fermarsi e riflettere.

Questo progetto durerà per almeno un anno e considero questa nuova direzione molto stimolante.

Bellissimi progetti, davvero. Penso che avere un riscontro concreto come quello descritto dia fiducia e speranza per il futuro, e faccia pensare che il tuo pensiero possa davvero avere un impatto sul nostro modo di abitare e fare design.

Sì, sono positivo, anche perché altrimenti starei zitto. Non avrebbe senso girare a dire ai giovani, ai miei studenti, che “moriremo tutti”. Voglio piuttosto portare esempi di possibilità, di laboratori di utopia, come li chiamo io.

Credo che il cambiamento sia un processo, non un evento improvviso. Non succede che facciamo una cosa e tutto cambia, ma è un cammino che ci mostra come la vita possa essere più bella.

Voglio passare soprattutto ai miei studenti più giovani l’idea che cambiare è bello, e una vita meno legata al consumo renderà tutto più simpatico, divertente e adorabile.

Credo che questo sia un messaggio cruciale: cambiare il modo in cui abitiamo il mondo. Abbandonare la visione antropocentrica, la nozione di sviluppo infinito e la frenesia del fare senza scopo, per adottare invece una prospettiva multi-naturalista, ci garantirà un benessere immediato nella relazione con tutto il resto del vivente. 

Se ci sono, puoi darci tre consigli pratici, anche piccoli, che tutti potremmo seguire per avere un impatto reale e portare un cambiamento nelle nostre vite quotidiane?

Sì, sicuramente. Primo consiglio: diventare disertori della crescita infinita. Proprio come i soldati che decidono di non combattere, dobbiamo rifiutare il consumo infinito, che è la macchina da guerra dell'economia del profitto.

Nel quotidiano, per esempio, quando andiamo al supermercato, se c’è imballaggio di plastica evitiamolo. Può sembrare una piccola cosa, ma il boicottaggio di massa può costringere la grande distribuzione a ripensare i propri modelli di packaging, ancora oggi dominati dalla plastica non riciclabile.

Secondo: combattiamo l’obsolescenza programmata. A volte è meglio spendere un po’ di più per un prodotto che dura 10-15 anni, invece di comprare qualcosa che si rompe subito e va buttato.

Terzo: siamo ciò che mangiamo, e per questo è fondamentale comprendere che le nostre scelte alimentari hanno un impatto diretto sul mondo che ci circonda. Credo sia necessario sviluppare una maggiore sensibilità verso l’origine degli alimenti e verso il modo in cui essi si relazionano con l’ambiente.

Quarto aspetto, ritorniamo ad essere «Homo faber», cioè uomini e donne capaci di fare da sé. Da manuali di autocostruzione a semplici riparazioni, dobbiamo riscoprire la capacità insita nel nostro DNA di creare e aggiustare cose, invece di buttare e comprare.

Un buon esempio è un tavolo: uno da 50 euro spesso non si può riparare, è fatto per essere buttato, mentre uno da 400 euro, fatto da un gruppo di designer attenti, durerà tutta la vita e potrà essere rivenduto o regalato.

Questi piccoli gesti di coscienza e attenzione possono avere un grande impatto e aiutarci a contrastare il consumo spropositato e la distruzione ambientale.

Oltre ai consigli pratici, c’è qualcosa che ti è piaciuto leggere, ascoltare o vedere ultimamente, di qualunque genere o provenienza, che consiglieresti a degli amici?

Intanto, leggere è qualcosa che fa bene a tutti, Per chi vuole approfondire il tema della relazione soggettiva con il mondo vegetale e animale, suggerisco un libro semplice ma bellissimo di Luis Sepúlveda, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, un best seller che mi ha aperto molte riflessioni anche da antropologo.

Come saggistica vi consiglio, di seguire il lavoro dell'Università di Firenze, polo di design di Calenzano. Pubblica saggi sul design interculturale, ecologico, multi specie, molto interessanti e scaricabili in PDF sotto licenza Creative Commons, che affrontano temi di etica, politica ed ecologia applicati al design. Infine, consiglio un film documentario un po’ datato ma molto interessante, Surplus: Terrorized into Being Consumers.

Infinite grazie Andrea per aver condiviso con noi la sua visione profonda e appassionata sul design, la sostenibilità e il rapporto tra uomo e natura. Le tue riflessioni e i tuoi progetti ci offrono spunti di grande valore per ripensare il nostro modo di abitare il mondo e agire ogni giorno con consapevolezza.

Invitiamo voi lettori a seguire il lavoro di Andrea, a lasciarsi ispirare dalle sue idee e a mettere in pratica, anche nelle piccole azioni quotidiane, quei cambiamenti che possono davvero fare la differenza.

Un sentito grazie a lui per il tempo dedicatoci e a tutti voi per averci accompagnato in questa conversazione ricca di senso.



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